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Addio al Maestro Fotografo Mario Dondero

Ha ritratto i protagonisti del Novecento L’artista è scomparso domenica a Fermo, nelle Marche, dove viveva 87 anni.

Si ispirava a Capa e a Cartier-Bresson. Ha ritratto i protagonisti del Novecento

Qualche mese fa un fotografo ha inoltrato un’email agli amici: «Mario ci sta lasciando. Siamo sempre più soli!». Ora siamo davvero più soli: Mario Dondero, vera leggenda di quella fotografia che coniuga reportage con la parola umanità se n’è andato ieri sera a 87 anni nella sua Fermo, che aveva eletto come amata stazione di cambio dove rifare lo zaino (mai la valigia) prima di uno dei tanti viaggi, spesso senza meta, per incontri che avevano come alibi la macchina fotografica. Infatti, scherzavano i suoi compagni di tante avventure, Dondero sta a Fermo, ma fermo non sta mai. E tutti sapevano anche, che il mondo della fotografia è sempre stato per Mario una straordinaria scusa per incontrare il mondo e raccontare le mille storie della commedia umana. Non una visione romantica. O almeno, non solo: Mario Dondero ha sempre avuto la stessa idea d’impegno civile dei grandi della storia del reportage come Robert Capa e Henri Cartier-Bresson, pensando sempre alla fotografia come a quell’esperienza in cui bisogna «mettere sullo stesso asse, occhio, testa e cuore».

Anche per questo Mario Dondero è stato un vero protagonista della cultura europea: nato a Milano nel 1928 ma di origini genovesi (di qui la sua appassionata fede per il Genoa), entra a 16 anni, nelle brigate partigiane della Val D’Ossola e non a caso gli danno il nome di battaglia «Bocia»: «Diventare partigiano era la scelta più naturale che un cittadino onesto dovesse fare». Poi, a Milano, è protagonista di quella stagione straordinaria del Jamaica, in cui a Brera si viveva la «vita agra», piena di speranze e sogni raccontata da Luciano Bianciardi. E già allora Dondero è a suo modo un personaggio: amico di Piero Manzoni, Lucio Fontana, Camilla Cederna, Ugo Mulas, Carlo Bavagnoli, Uliano Lucas, Alfa Castaldi, Gianni Berengo Gardin. Per tanti era un vero mito. E poi Parigi: la Rive Gauche, il Sessantotto, le piazze, le lezioni di Marcuse, le riunioni di «Le Monde», i ritratti di Sartre e Simone de Beauvoir. E poi di nuovo in Italia, per ripartire sempre, senza sosta, per un servizio in Algeria, nei teatri di guerra, per un’inchiesta sui manicomi o semplicemente per un abbraccio con un amico di cui sentiva nostalgia.

In qualche modo, Mario Dondero è sempre stato un dolce e appassionato agitatore di umanità. Un irrefrenabile collezionista di incontri, fossero scrittori, artisti, poeti, registi, giornalisti o camalli del porto della sua Genova. Del ricco universo di esistenze con cui incrociava lo sguardo, diventava spesso un fraterno amico, un compagno di viaggio, un complice. D’altronde, bastava la sola presenza di Mario per modificare la realtà delle cose: i volti delle donne, innanzitutto. Durante una cena, in un incontro occasionale o anche in un austero convegno, Mario era capace di improvvisare una struggente canzone francese e allora, fanciulle di ogni età si illuminavano con un sorriso. Mario aveva qualcosa di prezioso, indecifrabile e raro, quasi fosse la dote sciamanica di entrare in sintonia con ogni essere umano, virtù che suscitava insieme ammirazione, invidia, benevolenza, complicità e rabbia. Sì, anche rabbia, perché Dondero era capace di fermare il tempo, di bloccare ogni lavoro, di deviare ogni viaggio concordato, di tenerti bloccato dovunque tu fossi perché ti portava nel suo dolce vortice affabulatorio: vite incontrate, utopie e disincanti, poesia e fotografie. Era il «fattore Dondero».

È stato il «fattore Dondero» a far nascere, con una sua ormai celebre immagine (come sancì Alain Gobbe Grillet), Il Nouveau Roman, la corrente che scardinò i codici letterari del secondo Novecento. Fu proprio di Dondero l’idea di chiamarli e fotografarli così, non in posa, quasi fossero un gruppo di amici che si incontravano per caso: «Fu divertente come scattare una foto di una scolaresca a Parigi». Ed è stato ancora il «fattore Dondero» a creare quella amicizia con tanti scrittori e artisti: Alberto Moravia, Goffredo Parise, Giosetta Fioroni, Laura Betti, Pier Paolo Pasolini, Mimmo Rotella, per citare solo qualche nome. Ma nel suo «non-archivio» ritroviamo alcuni protagonisti del Novecento: Castro, Aragon, Grass, Neruda, Ionesco, Panagulis, Callas, Bacon, García Márquez e molti altri ancora. È stato il «fattore Dondero» a dar vita a quell’immagine in cui Pasolini è ritratto con sua madre, in un gioco di composizione perfetto: lo sguardo dell’una sembra fondersi con l’altro, creando, sospesa nel tempo, l’idea dell’energia silenziosa e assoluta che lega ogni madre al proprio figlio. Occhio, talento, intelligenza, simpatia, generosità. E, su tutto, libertà. Mario Dondero, con il «suo candido charme di bohémien senza radici» (così l’amico Corrado Stajano) era un uomo che amava la libertà sopra ogni cosa.

Il vero archivio era la sua memoria: di fronte ogni singola fotografia amava raccontare del personaggio ritratto, di quello che era accaduto mentre scattava, dei fatti politici e dei retroscena che avevano portato a quel certo evento. E poi, quasi per giustificarsi: «Sono stato sempre con la testa in avanti. Ecco perché non ho mai badato all’archivio». Mario aveva l’energia, la visione sognante e l’incoscienza di «quattro volte un ragazzo di vent’anni».

La fotografia di Mario Dondero è intesa come puntuale racconto della realtà, necessità etica, senso dello stare al mondo. Aveva come mito Robert Capa: «Il mio impegno nasce solo dall’importanza della fotografia come strumento di assoluta testimonianza», ricordava. E aggiungeva: «Non è che a me le persone interessino per fotografarle, mi interessano perché esistono».

Il lungo addio di Mario Dondero, accompagnato con dedizione dalla sua compagna Laura Strappa (che ha anche curato la sua ultima grande mostra a Roma un anno fa) è stato quello di un uomo che ha vissuto una vita in bianco e nero nel nome della libertà. Sino all’ultimo, l’ha inseguita anche quando le forze lo stavano abbandonando. Voleva a tutti costi mettersi di nuovo sul treno per andare a Milano per trovare il nipote, Leonardo, che la figlia Maddalena gli aveva donato; insisteva per rimettersi in viaggio, per andare a fare un nuovo servizio con Gino Strada. Voleva lasciare il letto dov’era inchiodato con la caparbietà di chi ha inseguito sempre i sogni e le utopie. E la vita l’ha inseguita davvero sino alla fine: i tantissimi amici che sino all’ultimo sono andati a salutarlo, li ha congedati tenendo loro la mano e scuotendola con le poche forze che gli restavano. Poi, a tutti, con un filo di voce, ha sussurrato con un sorriso: «Viva Genoa».

Mario Dondero se n’è andato. Della sua Leica, del bianco e nero e di quanto ci mancheranno l’umanità e lo sguardo, abbiamo letto ovunque. Tanti amici, tanti colleghi, tanto affetto per un uomo che fa parte della storia della fotografia

Mario Dondero ci ha lasciato. Il fotografo è scomparso domenica, all’età di 87 anni, nella città di Fermo, nelle Marche, dove viveva ormai da diverso tempo.

L’artista ci lascia un’eredità fotografica enorme, frutto di anni in cui ha ritratto i protagonisti della storia del novecento: una memoria storica di un valore inestimabile.

Dondero è stato una vera leggenda della fotografia, un uomo che nella sua opera ha saputo unire il fotoreportage al grandissimo spessore umano che lo distingueva.

Nel corso della sua vita ha sempre creduto che il mezzo fotografico dovesse essere coniugato ad un profondo impegno civile, sulle orme dei grandi della storia del reportage come Robert Capa e Henri Cartier-Bresson, gli artisti che maggiormente hanno ispirato la sua opera.

Di fronte alla sua opera, Dondero amava soffermarsi sopra ogni singolo scatto per raccontare la storia del personaggio ritratto, di quello che era accaduto mentre scattava, dei fatti politici e dei retroscena che avevano portato a quel certo evento.

Un uomo dalla grandissima umanità in grado di entrare in sintonia con le persone che aveva di fronte e capace di creare numerose amicizie con tanti scrittori e artisti: Alberto Moravia, Goffredo Parise, Giosetta Fioroni, Laura Betti, Pier Paolo Pasolini, Mimmo Rotella; e in grado anche di ritrarre alcuni tra i protagonisti della storia del novecento, come Castro, Aragon, Grass, Neruda, Ionesco, Panagulis, Callas, Bacon, García Márquez e tanti altri ancora.

Con lui se ne va un pezzo di storia della fotografia,